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LE RICETTE NELLA STORIA

CACIO E PEPE, INGREDIENTI DELLA STORIA

 

Dal Settecento, il condimento più usato resta il formaggio. Scrive Goethe, nel suo "Viaggio in Italia":  "i maccheroni si cuociono per lo più semplicemente nell'acqua pura e vi si grattugia sopra del formaggio, che serve ad un tempo di grasso e di condimento".

Infatti Il “cacio” ha origini antichissime a partire dal bacino del Mediterraneo, fino  in nord Africa e in Asia minore. Le testimonianze più antiche risalgono al III millennio a.c. Ma l'arte di produrre formaggio è andata sempre più  affermandosi fra gli antichi Romani che lo diffusero nel loro Impero.

Il pepe, a su volta era presente sin dalla preistoria già in India ed era conosciuto dagli Egiziani: lo testimonia  il ritrovamento di un grano di pepe nero  rinvenuto nella narice del corpo mummificato del faraone Ramesse II (1212 a.C.).

Gli spaghetti cacio e pepe sono da molti anni un tipico primo piatto della tradizione romanesca e laziale: i pastori portavano nei loro zaini, pezzi di pecorino stagionato, sacchette di pepe nero in grani e pasta essiccata ma precedentemente fatta a mano con solo acqua sale e farina, e arrotolati su di un ferro che li rendeva bucati (i progenitori dei” bucatini”). Pezzi di strutto servivano come lubrificante per le padelle di ferro, ma spesso le padelle non venivano usate e per praticità si condiva la pasta essenzialmente con cacio pecorino fatto a scaglie con i coltellacci, e pepe pestato tra due sassi. Nasceva il cacio e pepe …

Il pecorino perché si manteneva a lungo e senza problemi, il pepe nero, perché è un alimento che genera calorie, e proteggeva i pastori dai freddi intensi delle notti all’addiaccio. La pasta, è noto, fornisce un notevole apporto di carboidrati e calorie.

Quindi il “cacio e pepe” nasce dalla tradizione dei pastori, e non richiede altri ingredienti che la pasta, il pecorino e  il pepe.

Per essere “alla regola”, il cacio e pepe deve risultare secco, “deve intorzare” come dicono a Roma.
La ragione? Le osterie vendevano vino, quindi, più  i passanti, i cocchieri, la gente del popolo, “si intorzava” con il cacio e pepe, più vino beveva !

FETTUCCINE AL RAGU’ EMILIANO, UNA STORIA CHE VIENE DALLA FRANCIA

Ragù è un termine utilizzato per indicare un sugo composto da numerosi ingredienti (che variano a seconda delle regioni), quasi sempre a base di carne. Spesso i ragù sono usati per condire pasta o sformati. 
L'etimologia della parola trova le sue radici basi nel francese “ragôut” ( = appetitoso), e originariamente indicava dei piatti di carne stufata con abbondante condimento, ma senza pomodoro, che poi veniva usato per accompagnare altre pietanze. Il “ragout” è di fatto un antico piatto francese, ovvero uno stufato di carne di montone con verdure. La parola “ragù” è una deformazione tipica del dialetto napoletano (che ritroviamo anche nei termini: sartù, gattò, crocchè, purè).

Dell'uso del pomodoro nel ragù, invece, ne parla, forse per la prima volta, lo storico Carlo Dal Bono, che nella sua opera "Usi e costumi di Napoli" risalente al 1857, cosi descrive la distribuzione dei maccheroni da parte degli osti : "… Talvolta poi dopo il formaggio, si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo di pomodoro o del ragù copre, quasi rugiada di fiori, i maccaroni …".

Per quanto riguarda il ragù emiliano, fatto con carne macinata, la leggenda racconta di un cuoco, impiegato nelle cucine di Versailles, alla corte del Re Luigi XIV. Alla fine del suo servizio reale, il cuoco tornò in patria e aprì una osteria in cui volle proporre il ragout alla francese (fatto con pezzi di carne,e molte  verdure). Purtroppo il piatto non incontrò i gusti degli emiliani, e il cuoco non riusciva a venderlo: così, per evitare che la salsa inacidisse, macinò il tutto e presentò la salsa così ottenuta sulle già esistenti tagliatelle. Il piatto ebbe un gran successo, poi perfezionato nel “sugo alla Bolognese”. 

I BIGOLI, UNA STORIA TUTTA VENEZIANA

I bigoli sono probabilmente la pasta più tradizionale del Veneto, un prodotto di tradizione contadina in uso fin dai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia. La leggenda vuole che nel 1604 un pastaio di Padova, detto Abbondanza, venne autorizzato dall'allora Consiglio del Comune a godere del brevetto di un macchinario per lavorare la pasta, usando frumento padovano.  Il “bigolaro” era una macchina da pavimento, in cui la trafila faceva parte di un blocco più grande, che includeva: una sorta di contenitore che si riempiva con l’impasto e un manico che si avvitava per trafilare la pasta (in veneto “menare torno”). Il tutto montato su una sorta di treppiedi su cui ci si poteva mettere a cavalcioni per eseguire questo faticoso lavoro. Il signor Abbondanza aprì un laboratorio a Venezia e riuscì a produrre con questo macchinario anche vermicelli ed altri tipi di pasta lunga. La predilezione dei clienti cadde sui bigoli, una sorta di spaghettoni, tutti tondi, divenuti appunto la pasta tipica veneta.

Il nome “bigolo” viene dal termine dialettale veneto “bigat”, che significa bruco, verme. I bigoli furono chiamati così perché, appunto, somigliavano a grandi e lunghi vermi.

I BUCATINI CON LA MOLLICA, UNA STORIA DI POVERTA’

La storia della cucina povera è tutta racchiusa in questo concetto, e questa ricetta ne è l’icona. La dispensa (che etimologicamente non significa ”armadio” ma viene dal verbo “dispensare”), è il mobile che rilasciava gli alimenti che si trovavano a disposizione in assenza di cibi freschi. Se il raccolto era abbondante, tutto ciò che avanzava veniva conservato in dispensa. E spesso la dispensa era povera di ingredienti. Ma il modo di mettere insieme la cena si trovava sempre … farina, pane secco, una treccia d’aglio, un mazzo di peperoncini, mezza forma di formaggio di pecora. Null’altro. Poi un secchio d’acqua del pozzo e un ferro da calza attorno al quale poter attorcigliare la pasta. E dalle mani esperte delle donne nacquero i bucatini.

I PIZZOCCHERI DELLA VALTELLINA, UNA STORIA IN DIALETTO

I pizzoccheri, solo molti anni dopo il loro impiego sulle mense scarne ed essenziali della cucina popolare,  si impongono sulle tavole più nobili dei ristoranti, dei gourmet e delle famiglie più abbienti. La coltivazione del grano saraceno, detto “furmentun” (frumentone) o “farina negra” per il suo colore scuro, inizia tra la fine del 1500 e i primi anni del 1600. L’aggiunta nel piatto di verdure (biete e patate) e formaggi, veniva adottata proprio in caso di scarsa quantità in dispensa di farina di grano saraceno.  Indubbiamente il punto di origine è Teglio in Valtellina, e anticamente, come per tanti altri piatti della cucina povera, i pizzoccheri , come piatto unico, venivano serviti al centro della tavola, e i commensali se ne servivano con le mani. Infatti tra le tante supposizioni etimologiche dell’origine della parola “pizzocchero”, c’è anche quella che derivi da “pizà” (pizzicare, beccare).  E’ solo dagli inizi del ‘900 che i Valtellinesi con l’uso di cucchiai di legno, iniziano a servirsi del  “napel”, una ciotola messa al centro della tavola dalla quale si servivano tutti insieme i familiari.

LA NORMA, UNA STORIA DI MUSICA

Era il 31 maggio 1890 quando a Catania avvenne l'inaugurazione del Teatro Massimo Vincenzo Bellini. L’evento fu celebrato con la rappresentazione di Norma, il capolavoro del grande compositore catanese al quale era stato intitolato il Teatro. Fu una grande serata vissuta intensamente in una sala illuminata da tremolanti fiammelle di gas arancione a forma di farfalle, che contribuirono a rendere particolarmente suggestiva l'atmosfera.

Il drammaturgo Nino Martoglio, dopo lo spettacolo, accompagnò gli orchestrali e il maestro Bellini a mangiare, e capitando in una trattoria deserta con un oste che stava per chiudere, insistette per preparare almeno un piatto di pasta al maestro. L'oste emozionato per l’evento, si precipitò in cucina e con i soli ingredienti che aveva a disposizione preparò una pasta con le melanzane e grattugiò ricotta salata (solo perché aveva finito il parmigiano !). Ci mise una tale passione che il piatto risultò perfetto. In quell'occasione Martoglio si alzò in piedi ed esclamò "Ma questa è Norma !"

L’AMATRICIANA (LA GRICIA), UNA STORIA DI PASTORI

Si dice che “la gricia” la vera originale amatriciana (in bianco, solo guanciale, pecorino e pepe nero) si chiami così perché i pastori del Cantone dei Grigioni, effettuavano lunghi viaggi durante la transumanza, per portare le bestie al pascolo. Si spingevano fino ai verdi pascoli dell’Abruzzo, e i pastori locali li chiamavano “li grici”. Questi pastori, dovendo stare molti giorni in viaggio, dormendo all’addiaccio e spesso senza la possibilità di rifornirsi di paese in paese, potevano portare con loro solo alimenti che si conservassero bene nel tempo. Oltre a fagioli, secchi e ceci, portavano sempre formaggio pecorino e guanciale essiccato, con cui erano soliti condire la pasta secca messa a cuocere nei ramaioli sul fuoco dell’accampamento. Da qui il nome della pasta alla gricia. Se ne impossessarono poi i pastori dell’Abruzzo, intorno ad Amatrice, e nel reatino, e la chiamarono “Amatriciana”. L’amatriciana rossa, con l’aggiunta di pomodoro, è una variante dell’alto Lazio, nelle zone in cui arrivavano i pomodori da Gaeta. I bucatini invece, sono una pasta tipica della provincia di Roma, adottati perché assorbono bene il sugo. Nascono come variante degli spaghetti e inizialmente venivano fatti a mano dalle donne, girando la pasta tirata attorno a un ferro sottilissimo.

PASTA E CECI DELLA MOJA, UNA STORIA CONTADINA

Nell’idioma contadino Moggio o Moja,indica un’unità di misura per i campi, ci circa 3333 mt. quadri, che varia da regione a regione. E’ anche vero che il vocabolo dialettale del centro Italia moiano (da mojo = mollo, inzuppato) significa terreno morbido,  friabile, ovvero terra buona da coltivare.

Comunque sia, è innegabile il significato e la provenienza contadina di questa parola.

A Moie, frazione del Comune di Maiolati Spontini in Provincia di Ancona, si tiene una fiera di antichissime origini, in cui vengono proposti i tipici piatti della regione Marche, fra cui il piatto forte è proprio la “Pasta e ceci della Moja”.  In origine la fiera di Moie era dal 9 al 12 Settembre, oggi invece si svolgenell’arco dell'intera giornata del 9 Settembre. La fiera e' tra le più antiche delle Marche (come documentato da una serie di trascrizioni del Privilegio emesso dal Papa Sisto 5° il 13 Luglio 1588). La fiera, che celebra il Patrono, ossia la Madonna della Misericordia, la cui festa ricorre l'8 Settembre, si svolgeva lungo la strada Clementina, sui due lati della quale si allineavano i banchi di vendita e i casotti delle osterie. Attualmente la fiera si svolge nelle vie centrali della cittadina.

PAPPARDELLE AL CINGHIALE, STORIA DI UN LEGAME FRA L’UOMO E LA BESTIA

Le pappardelle al ragù di cinghiale sono un robusto primo piatto di origine toscana, per la precisione della zona di Grosseto e di tutta la maremma (zona ricca di selvaggina).

Il cinghiale è da sempre considerato una preda ambita: sia per la sua carne, che come  fiero avversario del cacciatore per la sua tenacia in combattimento. I cinghiali maschi,  in genere possono arrivare anche ad un peso superiore ai  150 kg, ma nel 2007 un ragazzo di 11 anni con una semplice pistola ha ucciso un cinghiale selvatico di 476 chilogrammi e lungo 2.74 metri che è stato valutato come il cinghiale più grosso del mondo.

In virtù di questo strettissimo legame con l'uomo il cinghiale appare assai frequentemente, e spesso con ruoli da protagonista, nella mitologia di moltissimi popoli, e solo nel corso del secolo passato ha cessato di essere una fonte di cibo di primaria importanza per l'uomo, soppiantato dal suo discendente domestico, il maiale.

Nel mese di settembre, nel comune di Capalbio (Grosseto) si tiene da oltre 50 anni una rinomata Sagra del Cinghiale. Il borgo medievale ospita questa rinomata sagra con antiche ricette della cucina toscana a base di cinghiale, come le immancabili pappardelle, il cinghiale alla cacciatora, e la polenta col cinghiale.

TROFIE CON IL PESTO, IL BASILICO CHE VIENE DAL MARE

Nei velieri commerciali che tanti anni fa partivano da Genova alla volta delle rotte internazionali, la parte posteriore della barca era adibita ad orto, per avere durante la navigazione erbe aromatiche e verdure fresche. Ancora oggi quella parte della nave si chiama “il giardinetto”. Tra le piante caricate a bordo, il protagonista era sempre il basilico genovese che,  pestato nel mortaio assieme a pinoli secchi, formaggio stagionato grattugiato e passato a filo con l’olio d’oliva ligure, dava la caratteristica salsa.

Nelle case liguri, durante la festa, la salsa veniva arricchita con cubetti di patate lesse e fagiolini fatti a pezzetti.

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